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Tyler Rake: il nuovo supereroe dei Fratelli Russo

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Adrenalinico, dinamico e senza pause. Semmai qualche momento di respiro c’è per far rifiatare chiunque abbia scelto di vedere questo film. Con queste tre caratteristiche si compone l’ultimo lavoro dei fratelli Russo, tornati dopo il doppio ed epico finale dedicato alla saga degli ‘Averngers’ della Marvel. Sono tornati, con una nuova opera distribuita sulla piattaforma streaming di Netflix dal 24 aprile scorso. ‘Tyler Rake’ è il titolo che per l’Italia, ‘Extraction’ invece è quello originale. ‘Un nuovo supereroe’, così lo hanno definito Anthony e Joe Russo. Il personaggio, in realtà, trae origine dall’omonima graphic novel ideata proprio dagli stessi autori di ‘Avengers – Infinity War’ ed ‘Endgame’, intitolato ‘Ciudad’ e pubblicato il 16 dicembre del 2014 di Netflix dal 24 aprile scorso.

Ad interpretare il personaggio principale troviamo Chris Hemsworth, diventato famoso per il ruolo di ‘Thor’. L’attore australiano si è cimentato in un personaggio totalmente differente rispetto a quello del ‘Figlio di Odino’, meno spaccone ma più tormentato ed a tratti cupo. Nel veder agire Tyler Rake, un mercenario ingaggiato per salvare un ragazzino figlio di un potente trafficante di droga rapito dal suo stesso rivale, sembra d’intravedere, miscelate, le caratteristiche di altri due personaggi iconici del cinema: John Rambo e John MacClane, il poliziotto irlandese impersonato da Bruce Willis nella saga di ‘Die Hard’.

Ecco, proprio su quest’ultimo riferimento sussiste qualche dubbio legato al finale, rischiando di fare dello spoiler e nel quale non ci addentriamo più di tanto. Interamente ambientato in India, il lungometraggio si propone come il nuovo action movie da annoverare fra i cult del genere che si sono susseguiti nel corso degli anni. Certo, è ancora troppo presto per consacrarlo con l’aggettivo di cult, ma le carte in regola le ha tutte. Diretto da Sam Hargrave, ex-stuntman di Chris Evans, meglio conosciuto come ‘Captain America’, e scritto da Joe Russo, mentre Anthony Russo con Mike La Rocca ed Eric Gitter lo ha prodotto. Nel cast è anche presente David Harbour, lo sceriffo di ‘Stranger Things’.

Avevamo accennato, dunque, alla dinamicità di questo film, dovuta grazie alle inquadrature rapide ed effettuate come se chi riprendesse la scena avesse sulle spalle la macchina da presa realizzando, non si sa quanto volutamente, dei perfetti piano-sequenza seppur brevi ma intensi. L’adrenalina, invece, è quella che scorre da quando l’eroe inizia ad affrontare tutti i nemici che cercano di contrastarlo: tra sparatorie, accoltellamenti, corpo a corpo nei vicoli e sui ponti è veramente difficile annoiarsi.

I moltissimi momenti di azione, comunque, non hanno per nulla seppellito la trama di fondo, anzi. Emerge nel momento giusto, durante uno dei rari momenti di pausa che il film concede, in cui vengono svelati alcuni punti oscuri del protagonista. Sufficiente è la prova del giovane protagonista, Rudhraksh Jaiswal, nei panni della vittima del rapimento. ‘Tyler Rake’, in definitiva, è un action movie tutto da scoprire, seppur con uno sviluppo della storia scontata, ma con cui si trascorre due ore di buon intrattenimento, non per tutta la famiglia a causa delle scene troppo cruente, che non lascerà insoddisfatti non solo gli amanti del genere, ma anche i curiosi. Da non perdere.

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RICHARD JEWELL – La Nostra Recensione

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Basta solo nominarlo e nella nostra testa prende vita un blog immaginario tutto interamente dedicato a lui. Alla sua vita, alla sua carriera ed ai suoi successi. Negli ultimi anni ci ha regalato perle cinematografiche di rara bellezza e di rara profondità nei contenuti e di significati, impliciti ed espliciti. L’ultimo suo lungometraggio, parafrasando il titolo, è l’ennesimo gioiello incastonato in un percorso professionale infinito.

Questa breve e intensa premessa possiede il duplice scopo, non solo quello di elogiare per l’ennesima volta la figura di Clint Eastwood, alimentando sempre di più la sua leggenda, ma anche per trovare le giuste parole per incominciare la recensione del suo ultimo capolavoro.

Si, perché in alcune occasioni non è mai facile trovare un perfetto inizio per aprire un nuovo articolo sul suo ultimo film. Specialmente dopo questo, e lasciateci ripetere l’espressione, ennesimo gioiello; dopo questa ennesima storia, tratta da un fatto vero, raccontata con tanta maestria mescolata a tanta umiltà.

Nonostante non ci sia la matematica sicurezza, qualsiasi altro regista che si rispetti, nella vicenda dell’uomo che salvò diverse vite durante l’attentato alle Olimpiadi del 1996, avrebbero intriso la trama di toni retorici, sconfinando nell’estremizzazione dell’ideale americano. Con Clint Eastwood invece, il cui script è stata firmata dallo sceneggiatore Billy Ray, il patriottismo a stelle e strisce emerge ma è calpestato dallo stesso arrivismo delle singole istituzioni che si occuparono del caso: quella classica dell’FBI e quella del giornalismo d’assalto.

In ‘Richard Jewell’ sono incastonate un po’ tutte le grandi contraddizioni americane e, nello stesso tempo, anche tutte le grandi paranoie di una società che, purtroppo, diventeranno reali l’11 settembre del 2001. Gli interpreti chiamati ad impersonare personaggi realmente esistiti nella realtà avrebbero meritato, di sicuro, maggior attenzione da parte dell’Academy Awards. L’unica che è riuscita ad ottenere una candidatura ai prossimi Oscar 2020 è la navigata attrice Kathy Bates, come miglior attrice non protagonista.

Ciò non vuol dire che Paul Walter Hauser, nei panni dell’eroe sfortunato, e Sam Rockwell, nel ruolo dell’avvocato di Richard Jewell, siano stati da meno nella loro performance interpretativa, anzi; una recitazione sorretta ed impreziosita anche da dialoghi che hanno facilitato l’attenzione dello spettatore. Attraverso battute ironiche al punto giusto ed una vena malinconica che non ha per nulla attecchito lo sviluppo del film. Sia dalla prima scena fino alla conclusione, Clint Eastwood ci mostra una ricostruzione meticolosa degli eventi senza forzature

Ci fa commuovere al punto giusto, senza alcuna esagerazione, e ponendo al centro il patriottismo americano bistrattato, come detto prima, non riconosciuto nei confronti di chi, come capita spesso, nelle istituzioni e nelle leggi ci crede veramente. Calpestato non dalla mera applicazione della legge, ma dal pregiudizio onnipresente che a sua volta ha innescato l’applicazione del diritto penale.

‘Richard Jewell’ dunque è un film da vedere e rivedere. Un film che mette in luce non solo la storia personale e pubblica del personaggio, ma mette in risalto persino la sua disarmante bontà e compostezza. Forse è questa la vera intenzione di Clint Eastwood: di esaltare con semplicità questo tipo di atteggiamento, ponendolo come punto di riferimento per tutti coloro che si sono ritrovati o che si ritrovano, purtroppo, in questa particolare situazione. 

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Hammamet: La nostra recensione

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Con questa recensione abbiamo il piacere di inaugurare una nuova rubrica: Storie vere. Uno spazio tutto interamente dedicato alle pellicole cinematografiche tratte, o semplicemente ispirate, a fatti realmente accaduti; comprendendo anche biografie di personaggi storici e non che hanno rappresentato una pagina importante della nostra storia.

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Semplice omaggio o magari un timido tentativo di innescare una polemica, senza aver saputo osare direttamente con il materiale storico a disposizione? Questo è l’unico pensiero che ha preso forma dopo la visione dell’attesissimo film “Hammamet”, scritto e diretto da Gianni Amelio, ed incentrato sugli ultimi sei mesi di vita dell’ex leader del Partito Socialista italiano, nonché ex-Presidente del Consiglio dei Ministri, Bettino Craxi; fuggito proprio ad Hammamet in seguito allo scandalo di ‘Mani pulite’ del 1992 e dove, poi, è morto senza mai rientrare in Italia.

Dunque è solo un omaggio relativo alla sua figura che, comunque non va mai dimenticata, vista la sua rilevanza nella scena politica di quegli anni, o forse nel raccontare l’ultima parte della sua vita si celava un’altra intenzione?

Il duplice quesito purtroppo ci porta verso lo spoiler. Ma chi conosce bene la vicenda non dovrebbe rimanere troppo spiazzato. Infatti in un momento ben preciso del film, Craxi, incomincia la registrazione di alcuni video in cui sembra raccontare delle verità. Dicendo cosa in realtà si celava dietro a quel sistema il quale una volta scoperto, le stesse indagini lo avevano ritenuto l’unico vero capro espiatorio.

Chiaramente quella di Craxi è una verità personale che non è stata adeguatamente approfondita. Bastava quel pizzico di coraggio in più per completare un discorso, seppur visivamente narrativo, il quale avrebbe di sicuro potuto aprire nuovi scenari nella revisione storica di quei fatti emersi all’inizio degli anni ’90.

Di sicuro il film ha il merito di proporre un ‘ritratto’ intimo di Craxi. Un uomo solo, senza potere, con una irrimediabile decadenza fisica e forse la flebile speranza di poter rientrare nella patria di origine. Diversi aspetti della vicenda sono stati romanzati, forse, proprio per quella mancanza di coraggio di cui andavamo a sostenere.

Per tutto il lungometraggio, tranne che per i primi minuti, la trama si sviluppa senza notevoli colpi di scena, senza magari far emergere qualche verità storica fino adesso taciuta e senza menzionare troppo anche quelle già conosciute; i dialoghi solo a tratti riescono a trascinare il film fino ai titoli di coda. Alcuni momenti di silenzio nel film sono quasi un velato richiamo alle pause che lo stesso statista, durante i suoi discorsi pubblici, ostentava con il suo naturale portamento.

Ciò però non è stato sufficiente ad aver garantito un quadro completo del segretario del partito socialista. Nessun riferimento, in termini di flashback, relativi al culmine della sua carriera politica; nessun riferimento alla ‘Milano da bere’, iconico slogan degli ‘anni ’80. Solo richiami velati anche a personaggi realmente esisti ma con identità e fatti leggermente modificati.

L’intera struttura narrativa è sorretta dalla straordinaria, monumentale ed epica prestazione dell’attore Pierfrancesco Favino nei panni, proprio, di Bettino Craxi. Semmai ‘Hammamet’ avesse avuto la fortuna di partecipare alla prossima corsa agli Oscar, l’attore romano sicuramente non avrebbe sfigurato al fianco dei più grandi colleghi hollywoodiani. La sua interpretazione è frutto di una meticolosa preparazione sul personaggio storico come lo stesso attore ha raccontato nelle singole interviste a cui è stato sottoposto.

In conclusione il film di Gianni Amelio permette sì il ritorno del cinema italiano a temi più impegnativi rispetto quelli più leggeri trattati fino adesso; con la convinzione, espressa anche a malincuore, di una grande occasione sprecata per non aver ricordato e ricostruito, se non proprio del tutto, quel periodo storico che l’Italia si porta dietro.

Qui sotto un ulteriore approfondimento dal blog di Freetopix, attraverso le rubriche di ‘Parole Schiette’ e ‘Forever 80s’:

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TOLO TOLO: L’INTELLIGENTE COMMEDIA DI CHECCO ZALONE

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Primo film dell’anno e del decennio e prima recensione del blog. Dopo la breve pausa targata 1° gennaio 2020, si riprende a spron battuto nel commento a caldo, o quasi, delle novità che giungono dal grande schermo. Neanche ‘Universo Cinema&SerieTv’ poteva esimersi dal non visionare ‘in prima persona’, in mezzo al pubblico, il nuovo ed attesissimo film di Checco Zalone ‘Tolo Tolo’. Lungometraggio prodotto e distribuito dalla Taodue di Pietro Valsecchi.

Atteso, soprattutto, non solo perché quando si parla del comico pugliese gli incassi toccano sempre livelli stratosferici ma anche per la tematica trattata: quello dell’immigrazione. Un argomento spinoso a causa delle implicazioni politiche, che lo stesso Zalone sorvola ampiamente con maestria.

Seppur non si ride a crepapelle, e ciò dipende anche dai gusti dello spettatore, la pellicola non stanca e non fa perdere l’attenzione dall’inizio alla fine. Le risate, comunque, sono assicurate e l’ironia, alle volte un po’ superficiale, permette una riflessione che trascende le singole convinzioni politiche. Ecco perché riteniamo che l’idea di Zalone sia intelligente.

In due momenti del film, senza fare troppo spoiler, la situazione del personaggio principale viene comparata alla situazione di coloro che vivono nei paesi dai quali poi sono costretti a fuggire. E’ in realtà una duplice metafora, seppur indiretta, che fa percepire, in modo o in un altro, le vicissitudini di entrambi i popoli coinvolti: il popolo italiano ed i popoli più sfortunati.

Con ‘Tolo Tolo’ siamo tornati alla classica commedia all’italiana dove la risata, finalmente, va a braccetto con la riflessione, attraverso i grandi temi sociali del nostro tempo. Un film, quindi, coraggioso e, se vogliamo dire, anche folle; visto che il trailer-video musicale che ha anticipato l’uscita del film ha scaturito alcune polemiche, tacciando lo stesso Zalone di un razzismo totalmente inesistente. Il box office, al primo giorno di programmazione ha registrato ben 8 milioni e 700 mila euro. Un vero e proprio record, ma chiaramente l’anno è appena iniziato e per avere un responso più completo bisognerà attendere parecchio.

Seppur il giudizio è positivo non ci siamo sentiti di approfondire ancora di più l’argomento per dar modo a tutti di vedere la pellicola. Nei prossimi giorni torneremo sull’argomento anche in chiave con Freetopix.

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LE MANS ’66 – LA RECENSIONE

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RIPROPONIAMO LA RECENSIONE DEL 18 NOVEMBRE 2019 SU LE MANS ’66. PER IL BLOG E’ IL MIGLIOR FILM DELL’ANNO

FORD VS FERRARI: UN FILM CHE MERITEREBBE DI CORRERE AGLI OSCAR 2020

Per la prossima corsa agli Oscar l’Academy, quasi sicuramente, non dovrà escludere il nuovo film di James Mangold, “Le Mans ‘66”, o quanto meno di non escluderlo per alcune nominations ben specifiche. Comunque è logico pensare che ci siano e ci saranno diverse opere cinematografiche che si contenderanno il trono di miglior film, quasi sicuramente, migliori di “Ford vs Ferrari”.

Nonostante ciò questo gioiellino di James Mangold, uscito il 14 novembre scorso, ha conquistato tutti già dal primo week end di programmazione, con un incasso che ha superato l’interessantissimo film di Jennifer Lopez: 468.111 euro contro i 465.918 uero di Jlo. Interessante non solo per le bellezze presenti nella pellicola, ma anche perché “Le ragazze di Wall Street” è una storia, nella sua struttura narrativa, incredibilmente vera. Anche “Le Mans ‘66” lo è.

Un fatto sportivo realmente accaduto che sembra quasi leggenda. Nel senso che staremmo qui a domandarci “ma è veramente successo”? La nostra risposta è un semplice: si. Ma non ci fermiamo qui con questa piccola affermazione. Sarebbe troppo riduttivo.

Il film narra la storia della Ford, con al comando Henry Ford II, nipote di Henry Ford, che per incrementare le vendite e la sua immagine nel mondo decide di sfidare, nel circuito di ‘Le Mans’, la Ferrari. La compagnia automobilistica, in primo momento, si affida all’ex-pilota costruttore di auto Carroll Shelby, interpretato da Matt Damon, ‘The Bourne Identity’, il quale a sua volta, si affida all’impulsivo Ken Miles, un pilota molto in gamba ma fuori da ogni regola, impersonato da quell’incredibile trasformista di Christian Bale. Nel cast figurano anche il nostro Remo Girone, nel ruolo di Enzo Ferrari, e John Bernthal, ‘The Walking Dead’ e ‘The Punisher’. D’altronde James Mangold non è la prima volta che gestisce un insieme di attori così ben assortito e vario. Ci sovviene ‘Cop land’, del 1997, in cui recitarono insieme: Sylvester Stallone, Harvey Keitel, Ray Liotta e Robert De Niro. Quindi si tratta di un regista navigato e, forse, troppo poco considerato.

In questo film la vicenda, raccontata per sommi capi sopra, viene ricostruita partendo dall’antefatto fino al tremendo e drammatico finale. In fondo: non si è sempre sostenuto che la vita è un’intera corsa in cui non sempre il successo personale è scontato? O comunque non viene riconosciuto nella sua totalità?

La duplice domanda ruota, si, intorno al protagonista, Ken Miles, ma la storia è comunque corale, con una sceneggiatura realizzata a sei mani da: Jez Butterworth, John Harry Butterworth e Jason Keller. Nel modo in cui è stato scritto il film non si deve attendere molto per un’accelerazione nello sviluppo della trama. Si parte subito a tutto gas, grazie anche da un agile montaggio della coppia Micheal McCusler ed Andrew Buckland, superando in scioltezza le temibili “curve” che potrebbero portare in alcuni momenti morti durante il film.

150 minuti, dunque, a “7.000 giri”, parafrasando una delle battute del personaggio principale, in cui le performances dei singoli interpreti si mescolano tra loro; non per migliorare la trasposizione cinematografica di una vicenda storico-sportiva non eccellente, anzi al contrario. Completano un lavoro che, nel suo complesso e come sostenuto in precedenza, meriterebbe se non direttamente un premio almeno le nominations per alcune categorie.

Le prime due le abbiamo individuate: la sceneggiatura ed il montaggio. Senza, però, dimenticare anche la fotografia di Phedon Papamicheal. Forse sono troppe tre nominations o forse c’è un po’ di esagerazione da parte nostra. Non crediate che ci siamo dimenticati anche degli attori, in fatto di Oscar. In questo caso le eventuali nominations non costituirebbero alcuna forma di sorpresa.

Il film è vincente per un semplice motivo: i fatti sono ricostruiti fedelmente, senza troppi espedienti per romanzare la storia. Con “Le Mans ‘66” ci troviamo di fronte ad un nuovo classico del genere “automobilistico -sportivo” del cinema. Un film che va visto e rivisto per la sua schiettezza ed epicità dei personaggi, per una storia da scoprire e da riscoprire. Un piccolo e grande capolavoro.

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Un mercoledì da leoni

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Ci sono film che posseggono la natura di romanzi visivi, in cui la fonte d’ispirazione per l’incipit sembra essere uno dei racconti di Ernest Hemingway. Storie semplici, delicate, epiche e che, durante la visione, diventano un’unica onda emotiva che travolge lo spettatore. E questa onda emotiva è confermata ogni volta che c’è una visione di queste pellicole particolari.

In questa schiera di film, classificabili ad un genere a parte, rientra di diritto ‘Un Mercoledì da Leoni’. Realizzato quarant’anni fa e uscito, in Italia, solamente cinque anni più tardi, il 5 luglio del 1983. Diretto da John Milius, la pellicola è incentrata sul mondo del surf. Sia il soggetto che la sceneggiatura sono stati realizzati dallo stesso regista.

La storia è interamente ambientata nel mondo dei surfisti ed è, per dirla ai giorni nostri, antologica. Parte dal 1962 fino ad arrivare nel 1974. In questo lasso di tempo vengono narrate le storie personali e non di tre amici, tutti surfisti, che vivono arrangiandosi e che, nel contempo, attendono il momento propizio di affrontare l’arrivo delle onde giuste.

All’inizio della pellicola la voce narrante fa riferimento ad una mareggiata avvenuta nel 1958. I tre personaggi, oramai esperti e un pò datati per il mondo delle tavole da surf, affronteranno la mareggiata del 1974; attraverso un iconico ed irripetibile finale che ha permesso la pellicola di essere indicata come cult dagli appassionati e non solo.

Nel cast figurano attori diventati, con il tempo, volti noti. Primo fra tutti, anche se aveva una piccolissima particina ma fungeva da voce narrante, Robert Englund, il Freddie Kruger della serie di film Horror: Nightmare. Altro pezzo pregiato era rappresentato dall’attrice Barbara Hale, la quale era diventava famosa, anni addietro, per il ruolo di segretaria di Perry Mason.

I tre protagonisti, invece, sono stati interpretati da Gary Busey, il quale anni più tardi recitò in un altro film cult: Point Break; Jan Vincent Michel e William Katt. Cosa vi dice quest’ultimo nome? Molto probabilmente alle nuove generazione nulla. Ma coloro che sono nati negli anni ’80 e anche un pò prima se lo ricorderanno nel telefilm: Ralphsupermaxieroe.

Come già precisato in precedenza la storia si sviluppa in lasso di tempo di dodici anni, periodo in cui viene sottolineata la spensieratezza di quell’epoca. I momenti edulcorati vengono minati dall’aggravarsi del conflitto in Viet-Nam. La perdita dell’innocenza e delle speranze cozzano con la nuda realtà, ma non l’amicizia tra i tre protagonisti e la voglia di affrontare le onde.

Il duello finale con la natura, con le enormi onde che si innalzano come muri da affrontare e non scansare, rappresenta la morale ed il messaggio più semplice di come la vita possa essere: cavalcare l’onda nonostante sai che potrebbe travolgerti. La metafora è perfetta, come anche il dialogo finale tra i protagonisti dopo la sfida.

“Quel Gerry Lopez è veramente il fenomeno che dicono”. “Si, proprio così. Noi, comunque, abbiamo fatto epoca”. Dialogo che sottintende il trascorrere del tempo e che, senza appello, obbliga ad incominciare a fare solo bilanci. D’altronde un’epoca si è conclusa in maniera epica. In queste battute riportate si fa riferimento ad un personaggio.

Gerry Lopez era veramente un surfista, un fuoriclasse di quei tempi. Tra gli attori protagonisti solo Gary Busey dovette imparare ad affrontare le onde qualche settimana prima dell’inizio della lavorazione della pellicola. ‘Un mercoledì da leoni’ è uno di quei pochi film che sono difficili da ripetere. E’ un evergreen e ringiovanirlo con qualche remake sarebbe davvero un’assurdità.

 

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Borg vs McEnroe

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Ogni sfida superata, per acquisire valore a distanza di anni, deve oltrepassare ogni barriera che il tempo pone come ostacolo. Se ciò accade il termine esatto per descrivere l’impresa è: leggendario. E’ questo il vero senso di “Borg vs Mcenroe”. Un significato raccontato, sviluppato con estrema umiltà ed un tocco di drammaticità interiore relativo ai due protagonisti storici del tennis.

Le due storie fungono da traino per tutta la pellicola, fino a incontrarsi o per meglio dire scontrarsi in quella che è la finale delle finali di Wimbledon. Il loro percorso narrato, a metà strada tra il genere biografico e il genere documentario, pone in risalto non solo le difficoltà che Borg e Mcenroe incontrarono e che affrontarono nella loro vita, ma anche di controllare la paura di non farcela, di non raggiungere il risultato sperato.

Bijon Borg, ribelle da adolescente, impara dal suo coach a chiudersi in se stesso, metabolizzando ogni tipo di attacco esterno, per esprimere poi tutta la disapprovazione, la sua rabbia, le sue angosce in ogni colpo di racchetta, conquistando la gara punto dopo punto; John Mcenroe, invece, è l’irascibilità fatta a persona. Un’irascibilità naturale che, nel momento topico, viene trattenuta fino all’ultimo match – point di un’epica finale.

La loro introspezione è una continua partita di tennis, in cui l’attenzione dello spettatore viene fatta rimbalzare fra l’uno e l’altro protagonista, senza mai e poi mai stancare e che, allo stesso tempo, accompagna fino all’epilogo paragonabile ad un vero e proprio tiebreak.

Se nella realtà lo storico match venne conquistato da Borg, entrando così di diritto nella leggenda, perché cinque titoli di fila a Wimbledon nessuno li aveva mai conquistati, le ultime scene della pellicola pongono a sottolineare, in un punta di piedi, la vittoria di entrambi.

In quella sfida hanno battuto i loro demoni e il reciproco rispetto, che prima era solo tra avversari, si tramuta in una splendida amicizia che dura ancora oggi nel tempo. Anche se nello sport viene sempre decretato, alla fine di ogni gara, un solo vincitore in quella partita, in quel 5 luglio 1980, di vincitori ne furono decretati due.

Due leggende che mutarono le regole delle varie rivalità nel tennis. Due uomini impeccabilmente riportati sullo schermo dai due attori: Shia Labouef, Mcenroe, e Sverrir Gudnason, Borg. Con una prestazione quasi da oscar. Peccato solamente che la pellicola non è stata nominata per la statuetta come miglior film straniero. Di sicuro non sarebbe stata immeritata la nomination.